La scorsa settimana, ho letto una notizia inerente 39 postini inglesi che sono stati dichiarati innocenti dopo che un bug del software gestionale del servizio postale gli aveva rovinato la vita, facendoli passare per ladri e mandandoli anche in prigione. Caso simile a quello avvenuto negli Usa: un ragazzo indagato per i dati di Google Maps.
Due casi diversi nel concetto, ma simili alla base: la tecnologia non è infallibile. E fidarsi troppo della tecnologia può portare anche a rovinare la vita delle persone.
Un fatto questo che hanno sperimentato sulla loro pelle numerosi postini inglesi, accusati dal loro datore di lavoro "Post Office" di aver rubato soldi e per questo motivo incriminati. Una di loro, Janet Skinner, è stata mandata in prigione per nove mesi e allontanata dai figli per aver sottratto 59.000 sterline. Un altro, Harjinder Butoy, ha passato in prigione oltre tre anni e si è visto la vita rovinata: non è più riuscito a trovare un altro lavoro quando è stato scarcerato.
Non solo: un altro postino si è suicidato quando lo hanno accusato di aver sottratto 100.000 sterline mentre una ragazza, in dolce attesa, è stata accusata prima e poi imprigionata per giorni.
Dal 2000 al 2014 circa 736 postini sono stati condannati per aver sottratto soldi a Post Office: dalle loro postazioni di lavoro i conti non tornavano, mancavano incassi.
Nessuno di loro però era colpevole: a far male i conti è stato un software gestionale realizzato dalla giapponese Fujitsu, un bug mai risolto. Per anni si è cercato di dimostrare che la colpa era del software, ma Post Office ha sempre detto che Horizon era affidabile e che i soldi erano stati effettivamente sottratti. Una situazione allucinante, anche perché per evitare l’accusa di furto molti impiegati hanno addirittura versato di tasca loro soldi che risultavano mancare dalle loro postazioni, con casi di famiglie rovinate e altre ridotte sul lastrico, che hanno ipotecato o venduto la casa.
Dopo anni di processi, finalmente, si è giunti alla verità: il software non era affidabile come il servizio postale e i suoi dirigenti volevano far credere. Per anni, secondo l’avvocato che ha seguito i postini sotto processo, i dirigenti hanno difeso il sistema costoso e delicato che gestiva le poste e hanno accettato, pur di difendere i profitti, la perdita di vite umane e di libertà. Ora, è inevitabile, arriveranno i risarcimenti ma è davvero difficile risarcire una persona che ha dovuto passare ingiustamente anni di vita in prigione a causa di un bug.
Questo è solo uno dei casi dove la tecnologia sbaglia e a pagare è l’uomo.
Dagli Usa infatti arriva un allarme preoccupante che riguarda il modo in cui vengono utilizzati i dati di geolocalizzazione e le informazioni fornite da provider come Google per risolvere rapine e omicidi.
Zachary McCoy è un ragazzo che lo scorso anno ha avuto la sfortuna di passare in bicicletta davanti ad una casa nel suo quartiere dove c’è stato un furto con scasso nel momento in cui, secondo la polizia, è avvenuto il fatto.
La polizia, nel corso delle indagini, ha chiesto a Google un report di “geofence”, ovvero ha chiesto che Google fornisse loro i dati dei telefoni che sono passati in quella zona nel periodo indicato. Tra questi c’era anche il telefono di Zachary McCoy, che dopo pochi giorni ha ricevuto da Google un mail dove gli veniva anticipato il fatto che i suoi dati erano stati forniti alla polizia per una indagine. Si è così rivolto nel panico ai genitori, che hanno a loro volta prelevato tutti i risparmi per assumere un avvocato e difendere il figlio innocente. Il vero scassinatore è stato poi catturato, ma Zachary McCoy è stato per qualche giorno il primo indiziato solo a causa di un dato di geolocalizzazione fornito da Google.
Non è andata meglio ad un altro americano residente in Arizona, che nel 2018 ha passato sei giorni in carcere con l’accusa di omicidio perché il suo cellulare risultava vicino al luogo del crimine. Lui non era mai stato in quella zona, ci era solo passato il patrigno che usava l’account del figlio sul suo telefono. Lui, infatti, non ne aveva uno. Entrambi sono risultati innocenti, ma la polizia ha fatto il suo nome come sospettato e la sua vita è stata rovinata per sempre: basta una semplice ricerca su Google per trovarlo come sospetto in un caso di omicidio.
Casi diversi, vite rovinate per l'eccessiva fiducia riposta nei dati di un software. Nel primo caso c'è poco che un utente possa fare, se non dimostrare che il problema è nel software. Nel secondo caso invece si apre una enorme parentesi legata alla privacy e alla condivisione dei dati.
Spesso, nelle battaglie per la privacy, c'è chi reputa eccessiva la campagna di sensibilizzazione sulla tutela dei dati perché tanto "non si ha nulla da nascondere". Neppure Zachary McCoy aveva nulla da nascondere, eppure è finito sotto indagine perché Google ha dovuto cedere alcuni suoi dati in seguito alla richiesta delle autorità. Dati che Zachary McCoy, con una accurata gestione della privacy del dispositivo, poteva anche scegliere di non condividere.